Alla ricerca di Amore. Andrà davvero tutto bene dopo la pandemia?

Editoriale di Rita Patanè

Amore, una parola semplice. Se ci fermiamo un attimo, però, ad indagarne il reale significato tutto diventerà complesso già a partire dall’etimologia che risale al sanscrito ‘kama’ = ‘desiderio, passione, attrazione’. Anche il verbo ‘amare’ risale alla radice indoeuropea ‘ka’ da cui ‘(c)amare’, cioè ‘desiderare in maniera viscerale, in modo integrale, totale’.
‘Amore’ deriva dal latino ‘amare’. È, insomma, una parola che deriva da se stessa, dal suo stesso cuore.
Un’altra interpretazione etimologica della parola ‘Amore’ fa risalire il termine al verbo greco ‘mao’ = ‘desidero’, da cui il latino ‘amor’ = ‘amare’ che indica un’attrazione esteriore, viscerale, quasi animalesca da distinguere da un’attrazione mentale, razionale, spirituale per esprimere la quale era usato il verbo ‘diligere’, cioè: ‘scegliere, desiderare’.
Un’ulteriore, e meno probabile, ma interessante interpretazione etimologica della parola ‘amore’ individua nel latino ‘a-mors’ = ‘senza morte’ l’origine del termine, quasi a sottolineare l’intensità immortale di questo sentimento o, forse, sarebbe più corretto dire: mortale e, tuttavia, alla base della Vita. Del resto Eros e Thanatos dividono lo stesso letto.

Si potrà commentare: “Questo cosa c’entra con Giarre?”. Tutto. Perché di questo Amore si sono perse le tracce e tale assenza è palpabile anche a Giarre e nell’hinterand jonico-etneo. Un tempo, dimostrare l’amore per la propria città significava prendersene cura. Le strade, le ville, le aiuole, tutti contribuivano al decoro cittadino, nulla si ‘distruggeva’ o si sporcava volutamente. Abitare il paese equivaleva ad abitare casa propria. Del proprio luogo di residenza si faceva un vanto e Giarre, cuore del Distretto, era, soprattutto alla fine degli anni ’60, centro del commercio e, ancor di più, dell’artigianato dell’hinterland jonico – etneo. Amata e ammirata da cittadini e forestieri. Nella Piazza centrale, salotto buono della città, la domenica per la Messa si sfoggiava l’abito buono. Gli uomini, finita la celebrazione, si soffermavano in piazza per discutere. Si viveva pienamente il centro cittadino, i rapporti d’affari ma, prima di tutto, quelli umani.

Ma dove sono finiti Amore e, soprattutto, Umanità? Dicevamo che la pandemia ci avrebbe cambiato in meglio che: “Andrà tutto bene.” Ma è davvero andata così? O, meglio, davvero andrà così? Oggi mi sento di rispondere: “No”. E questo non soltanto per i lockdown che ci hanno costretti lontani o per l’assenza di contatto fisico cui il Covid ci ha relegato ma per un progressivo sgretolarsi dell’umanità che sta alla base del mondo, uno squarcio nei rapporti umani.
Pensavamo, forse, che ne saremmo usciti migliori perché, come afferma lo psicoanalista Massimo Recalcati,
«L’angoscia contemporanea non sorge dalla mancanza ma da un troppo pieno, dalla sensazione di essere imprigionati in un sistema che ci avvolge e ci comprime e sembra non permettere – nemmeno nella fantasia – un altro mondo, un altro orizzonte[...]».
A Massimo Recalcati, psicoanalista, firma di Repubblica, indagatore della condizione dell’uomo contemporaneo, piace ribaltare i luoghi comuni: la “mancanza” non è un “meno” ma è un “più” potenziale. Perché è proprio la consapevolezza di una mancanza che mette in movimento il desiderio. Pensavamo che il desiderio di tornare a stringerci la mano, ad abbracciarci, a parlare senza “maschere”, avrebbe fatto rinascere in noi una più spiccata sensibilità, l’urgenza di rapporti più veri, nell’attesa ed in sostituzione di quell’anelato contatto che avremmo riconquistato più puro e totalizzante.

Ma quando potremo finalmente togliere le maschere riusciremo ancora a parlarci? Quella che osservo e che temo è una progressiva apatia, nel migliore dei casi, che si evolve più spesso in odio e che pervade ogni fibra della società. Un’indifferenza, una noncuranza, un’anaffettività che non posso trascurare. Lo vediamo su strada, nella guida: automobilisti che sorpassano pericolosamente anche solo per posizionarsi un’automobile più avanti (in fila), clacson insistenti, insulti. Si ha una fretta incredibile ma di andare dove? Non si vuole più aspettare, come se avessimo già atteso troppo. Si, questo è vero, però, si ha fretta di vivere senza cogliere i colori, le differenze, la bellezza, il Tempo che ci serve. Non esiste più la cura, il decoro per i luoghi (spesso cumuli di rifiuti invadono ampie porzioni di strada), non c’è più gentilezza, erroneamente scambiata per fessaggine, nessuno si ferma. Non ci si ferma a guardare, ad ascoltare, a tendere la mano, a sorridere. Tutti col capo chino sui nostri smartphone o pronti a sbottare se “perdiamo tempo”. Quel Tempo che abbiamo paura di perdere ma che non sappiamo far fruttare, quel Tempo che mal sopportiamo, quel Tempo che ci opprime, quel Tempo che non tornerà.

Non tutto è perduto però. Siamo ancora in Tempo. Me ne sono accorta nel periodo natalizio. In un centro commerciale, al lavoro da anim – attrice, impersonavo Nonna Elfa. D’un tratto, senza darmi il tempo di frapporre distanza, una bambina è corsa ad abbracciarmi, mi cingeva la vita, arrivava lì. Il mio primo istinto è stato quello di allontanarmi, programmati ormai come siamo a rispettare la distanza di sicurezza “anticovid”, e più preoccupata per la piccola che per me ma lei non me l’ha permesso. Certo, la bambina stava abbracciando un’Elfa di un mondo magico, non una persona reale, ed avrà pensato che in quel mondo, finalmente, gli abbracci non rappresentassero un pericolo ma una cura. Quando mi sono resa conto che non c’era rischio in quella situazione (dispositivi di sicurezza e la bambina che arrivava, appena, alla mia pancia) ho ricambiato quel gesto, si ingessato, ma di grande tenerezza. Allora, un calore mi ha pervaso, una serenità antica, quella che viene dal contatto fra gli esseri umani, l’ascolto del Tempo dell’altrui battito e, sotto la mascherina, un sorriso mi ha riportato al mondo. L’abbraccio di quella bambina mi ha fatto ricordare cosa siamo. È stata coraggiosa. Ci vuole coraggio per riprendersi l’Umanità. Amare è coraggioso.

Con l’auspicio che Giarre e l’hinterland ritrovino quel coraggio, complice l’approssimarsi di febbraio, mese votato all’Amore, in questa edizione abbiamo voluto seguire tale fil rouge, l’Amore nel senso più ampio, più nobile. Lo ritroverete, fra queste pagine, nascosto o manifesto. Perché verrà un altro Tempo, ritorneremo vicini e, forse, dobbiamo riabituarci all’altro, a ciò che non siamo noi, a ciò che non siamo più, a ciò che è diverso, che ha un altro Tempo ma dal cui contatto possiamo ricevere tanto. E se torneremo a guardare il Cielo, torneremo ad Amare, ad Essere Umani, ad essere Cittadini.

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