Il Capitale al tempo del Covid

Il capitalismo non è un sistema solamente economico, ma anche filosofico e antropologico. Ne è convinto lo scrittore e saggista Gianni Vacchelli, che torna ospite de il Giornale di Legnano per una riflessione sulla nostra epoca.

«Il capitalismo è una corsa infinita che procede per accumuli successivi. È, sostanzialmente, potere».
Il potere di per sé non è negativo, ma, per sua natura, tende a farsi sempre più onnipresente.
«Nelle sue fasi più recenti, tende anche a generalizzare uno stato di emergenza. Se anche questo sia intrinseco del potere, è tema di dibattito tra i politologi».

Prima di spiegare cosa s’intenda per fasi del capitalismo, occorre chiarire che ciò di cui parla lo scrittore non va confuso con lo spirito imprenditoriale o l’iniziativa privata, né con capisaldi della civiltà come il diritto a guadagnarsi da vivere o a possedere proprietà private. Il tema della riflessione verte, piuttosto, sull’attuale sistema – che, non a caso, riceve critiche bipartisan anche dal mondo della politica – solitamente chiamato neoliberista.
Definizione forse non sufficiente a delinearne caratteristiche ed effetti.

Gianni Vacchelli, scrittore e saggista, nel libro “L’inconscio è il mondo là fuori. Dieci tesi sul capitalocene: pratiche di liberazione” riflette sulle origini antiche del capitalismo e sui suoi aspetti antropologici.

In che fase del capitalismo ci troviamo?
Direi bio-securitaria. Riprende, e amplifica, alcuni aspetti del “capitalismo della sorveglianza” denunciato dall’accademica Shoshana Zuboff, dopo l’11 settembre.
Paradossalmente, il modello di riferimento è cinese, più che americano, perché vede una saldatura tra potere economico e Stato. Si tratta insomma di una sorta di capitalismo comunista, per dirla con Agamben, bio-securitario, ipertecnocratico, che ha fatto della vita stessa il suo feticcio. È anche il capitalismo più capace di condizionare ed erodere il libero arbitrio, di sempre. Non è solo digitale, è cellulare.

Quali sono le caratteristiche del capitalismo della sorveglianza?
Accumulo d’informazioni e una presenza marcata dello Stato nelle vite dei cittadini, giustificata dalla sicurezza nazionale. La Zuboff ricorda come, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, fu approvato il patriot act, che consentiva all’FBI di risalire ai libri letti dai cittadini nelle biblioteche pubbliche e, basandosi su di essi, valutare se fossero potenziali terroristi. Una giustizia algoritmica, probabilistica. La svolta del 2001, ricorda il giurista Ugo Mattei, fu il passaggio da un diritto ex post crimine a una prevenzione dello stesso su base statistica.
Il ‘cavallo di Troia’ fu la creazione e strutturazione del nemico, in quel caso il terrorista, quale intrinsecamente malvagio. Un’opera resa possibile dalla tecnologia. Sia perché persino superiore ai mezzi di comunicazione a disposizione dei regimi totalitari del ‘900, sia perché la tecnologia viene tendenzialmente considerata neutra, senza bandiera o colore politico.
In tempo di globalizzazione, il patriot act non può essere considerato un’eccezione americana. L’anno scorso, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio si disse favorevole all’istituzione di un patriot act europeo (n.d.r.).

Quali sono i tratti in comune con la fase attuale, che lei definisce biosecuritaria?
L’epidemia è indiscutibilmente un fatto reale. Mi chiedo, tuttavia, se alcune conseguenze dello stato d’eccezione verranno prolungate nel tempo, in modo simile a quanto avvenuto con la lotta al terrorismo. Stavolta, in nome della salvaguardia della salute, bio-sicurezza appunto, in una perenne emergenzialità. Non è complottismo, non parlo di complotti. Semplicemente, osservo come la gestione dell’emergenza non sia passata da alcun reale dibattito. Non è stata affrontata a seguito di una normale discussione in sede parlamentare, ma attraverso decreti calati dall’alto. L’europarlamentare Manon Aubry ha chiesto chiarezza alla Commissione Europea sui contratti firmati con le case farmaceutiche produttrici dei vaccini anti-Covid, ricevendo in risposta un documento pieno di omissis. In tema greenpass non faccio riferimento a quanto dica qualche blogger o capopopolo di piazza, ma ai dubbi sollevati in sede di Commissione Affari Costituzionali del Senato da professori universitari, medici, filosofi, giuristi costituzionali. Rifiuto definizioni come pro o no green-pass, perché di una povertà sconcertante. Forse Dante, che nella Divina Commedia critica il maledetto fiore, si può definire semplicemente un no fiorino?

Se guarda al futuro, che capitalismo si aspetta?
Robotico. L’intelligenza artificiale è agli inizi, ma ha già applicazioni commerciali. Temo che sarà anche bio-ingegnerizzato, genetico. Sarà, e potrebbe sorprendere, ecologico.
Non mi riferisco all’economia green, ma al problema dei cambiamenti climatici. Il capitale cavalcherà il tema e dirà: tutto deve cambiare, tranne me che l’ho provocato. Perché il capitalismo si appropria anche dei temi sociali, così come del linguaggio. Non mi riferisco solo all’abuso di anglicismi, ma anche al dualismo, alla mancanza di sfumature sottolineata in precedenza.

Quali alternative ci sono, a suo avviso?
Penso che l’unica vera alternativa sia capire che non c’è scampo, se non si esce dall’attuale configurazione mentale. Ribadisco, una buona imprenditoria esiste, Mattei od Olivetti ne sono l’esempio. Ed è lecito voler fare profitto. Ma se il profitto diventa l’unico valore per tutti, in che futuro si può sperare? Soprattutto: perché sembra impossibile seguire un modello di vita diverso, ad esempio “non connesso”? Si dirà che i cambiamenti sono dolorosi, che cambiare sistema economico e sociale può portare a perdere posti di lavoro. Ma non avviene forse già oggi? Forse non vediamo una società sempre più divisa e bellicosa?

Testo a cura di Francesco Moscarella

Tratto da il Giornale di Legnano edizione dicembre 2021

http://www.limedizioni.com/portfolio/giornale-legnano-dic-2021/

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